VIAGGIO ALCOLICO-LETTERARIO IN COMPAGNIA DI CARLO PORTA |
Per antiche vigne sulla strada del Sempione Di Sergio Redaelli
Andar per
vini lungo la strada del Sempione, di osteria in osteria e siccome un
sorso tira l’altro, barcollando un po’, fare tappa immaginaria
sotto una frasca e poi in un’altra, deviando un poco dal percorso
prefissato: insomma, darsi al buon tempo assaggiando, degustando e
immaginando le vigne, i torchi, i carretti, le vendemmie, le botti e
i bottiglioni del bel tempo andato.
E’ il viaggio che il poeta Carlo Porta, il principe dei rimatori meneghini tra il Sette e l’Ottocento, idealmente compì da Milano al lago Maggiore e che Giovanni Staccotti ha celebrato in una rara operina intitolata I vini del Porta lungo la strada del Sempione, quaderno ottavo, stampato a Milano nel mese di dicembre del 2003, fuori commercio, per i soci dell’Antica Credenza di Sant’Ambrogio, un ente culturale senza scopo di lucro finalizzato al recupero e alla diffusione delle tradizioni milanesi e lombarde. E’ un itinerario alticcio e gustoso, zigzagando tra i paracarri dell’alto Milanese e del Varesotto, patria dell’industria e del terziario, fabbrica d’aerei e di motociclette un tempo verdeggiante di tralci e pampini. Con una puntatina, fuori programma, nel Lecchese. Il più autorevole cantore dei nettari prealpini fu proprio Carlo Porta che dedicò passi immortali ai poco noti vini di Canegrate, Tradate, Busto Arsizio e Angera lungo la strada che Napoleone Bonaparte fece costruire e che in suo onore si chiamò appunto Strada Napoleonica del Sempione: concepita, sterrata e poi asfaltata per unire il Verbano, il Cusio e la Valdossola al Rodano e al Lemano e per collegare Milano, la capitale della repubblica cisalpina, attraverso le Alpi, a Parigi capitale d’Europa. L’ARTIGLIERIA DI NAPOLEONE Per dirla col nostro Giovanni Staccotti, esperto cultore di cose ambrosiane: “Sono trascorsi oltre due secoli dall’arrivo a Parigi del dispaccio che nel 1805 annunciava: “Non vi sono più Alpi, il Sempione è aperto ed io attendo l’artiglieria“: infatti Napoleone, che aveva iniziato la sua folgorante carriera militare come ufficiale d’artiglieria, aveva fortemente voluto un collegamento attraverso le Alpi per portare i suoi cannoni sul fianco dell’Impero austriaco”. Nato a Milano il 15 giugno 1775, Carlo Porta fu un tranquillo funzionario dell’amministrazione pubblica con la passione per la poesia e il dialetto. Nel corso della sua breve vita - morì il 5 gennaio 1821 ad appena quarantasei anni - immaginò una società ideale e senza ingiustizie, capace di assicurare la pace ai cittadini e la libera circolazione delle idee. Tanto che le sue rime in vernacolo meritarono le lodi d’illustri contemporanei come Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Henry Beyle in arte Stendhal e Alessandro Manzoni. Nel 1810 il poeta alzò il calice per declamare il Brindes de Meneghin all’ostaria, ditiramb per el matrimonni de S.M. l’Imperator Napoleon con Maria Luisa I.R. Arziduchessa d’Austria: una composizione foggiata sul modello di Francesco Redi, l’autore di Bacco in Toscana, in cui utilizzò la maschera di Meneghino per chiedere pace e prosperità. E verseggiando citò zone vitivinicole che oggi non esistono più.
“Viva el gran Napoleon, noster pà, resgiù, patron, coeur e amor di buseccon! Viva semper la gran Tosa ch’el se sposa! Che la possa, come i vid, attaccas a lu polid de fagh prest on bell basgioeu de fioeu, tucc pari soeu. Giò giò allegher del vin negher, sbegascemm, che poeu dopo parlaremm. Che granata! Varda varda! Sent che odor! Che bell color! Viva Bust e i so vidor! Quest chì si l’è el ver bombas che consola, che dà gust alla bocca, ai oeucc, al nas. Che piasè! La boccalinna conte el cuu la varda el so: glò, glò, glò”. Traduzione di Staccotti: “Viva il gran Napoleone, nostro padre, reggitore, padrone, cuore e amore dei milanesi! Viva sempre la gran fanciulla che si sposa! Che possa, come le viti, attaccarsi a lui e fargli presto un bel mazzetto di figlio, tutto uguale a lui. Giù giù allegri del vino nero. Sbevazziamo che poi dopo parleremo. Che granato! Guarda guarda! Senti che odore! Che bel colore! Viva Busto e i suoi vigneti! Questa qui è la vera bambagia che consola, che dà gusto alla bocca, agli occhi, al naso. Che piacere! Il boccalino con il culo guarda il sole: glu, glu, glu”.
MENEGHIN ALL’OSTARIA Più avanti il poeta incorona – no, non l’imperatore di Francia – ma il piemontese Gattinara e il Montarobio della Brianza: “Presto, ovej, della cantinna! Porteen scià ona caraffinna de quel fin de Gattinara, vera gloria de Novara. Quest l’è on vin, l’è on vin de scior, ch’el po’ ves bevuu magara anch dal primm Imperator… L’è peccaa che el Montarobbi nol sia on mont largh mille mia; chè in d’on quaj cantonscellin ghe sarav forsi cà mia. Ma l’è on mont tant piscinin che tanc voeult quel pocch penser de scuffiaghen on biccer boeugna proppi guarnall via” (Presto, voi, della cantina! Portate qui una caraffina di quello fine di Gattinara, vera gloria di Novara… E’ un peccato che il Montarobio non sia un monte largo mille miglia, perché in qualche angolino ci sarebbe forse casa mia. Invece, è così piccolo che, spesso, bisogna scordarsi di poterne gustare un bicchiere). Cinque anni dopo, nel 1815, in piena restaurazione austriaca, il poeta scrisse un altro Brindes de Meneghin a l'Ostaria – questa volta - per l’entrada in Milan de Sova S.C Maistaa I.R.A. Frenzesch Primm in compagnia de sova miee l’Imperatriz Maria Luvisa e utilizzò l’allegoria dei vini per reclamare autonomia, buongoverno e una vasta partecipazione dei notabili lombardi nell’amministrazione della città. “Che Toccaj, che Alicant, che Sciampagn, che pacciugh, che mes’ ciozz forester! Vin nostran, vin di noster campagn, ma legittem, ma s’cett, ma sinzer, per el stomegh d’on bon Milanes ghe va robba del noster paes…. “. Il solito affezionato Giovanni Staccotti traduce fedelmente: “Ma che Tocai, che Alicante, che Champagne, che intrugli e misture forestiere! Vino nostrano ci vuole, vino delle nostre campagne, legittimo, schietto e sincero. Per lo stomaco di un buon milanese ci vuole roba del nostro paese”. All’inizio dell’Ottocento il Tocai, l’Alicante e lo Champagne andavano per la maggiore sulle tavole milanesi. Erano nettari ungheresi, spagnoli, francesi, proprio come i collaboratori del governo di Francesco I, funzionari stranieri scelti per amministrare Milano. Il poeta naturalmente non li vede di buon occhio e contrappone ad essi nel gioco letterario, politico ed enologico i vini di Canegrate, vicino a Legnano, un tempo feudo dei Visconti di Modrone e il “vinett savorii, limped, luster e s’cett che se catta suj ronch del Gergnett”, il vinello saporito, limpido, chiaro e sincero che si coglie sui ronchi del Gergnetto, una località brianzola feudo dei Mellerio e dei Somaglia.
L’ALLEGORIA DEI VINI NOSTRANI "Pagherei non so cosa, un milione, per far da cantiniere al padrone - scherza - Se il padrone arriva ad assaggiarne, non berrà mai più un goccio di vino forestiero". Il gioco continua: "Scià de bev anca mò, che sont succ!", datemi ancora da bere che sono asciutto. E più avanti Meneghino reclama: "Il vino di Gavirate? Quello del signor duca? Voglio gonfiarmi, voglio annegare, sequestro tutte le botti, su beviamo, pago io”. Il poeta passa in rassegna i vigneti che, allora, prosperavano alle falde delle Prealpi. Menziona il vino brillante e sugoso di Castano Primo, quelli mostosi, puliti e schietti di Mombello, di Casate, Buscate, Busto Garolfo, che comprendeva l’attuale Villa Cortese e i vini di Desio, Magenta, Arlate, Parabiago, Tradate e Varese. “Sotto l’allegoria dei vini – spiega egli stesso - si adombrano i possessori più cospicui dei luoghi ove i vini sono raccolti”. Insomma, sembra suggerire il malizioso letterato, se proprio dobbiamo avere qualcuno che ci comandi, è meglio che sia italiano piuttosto che straniero. A distanza di due secoli, che fine hanno fatto i vini e i vigneti cantati dal poeta? Fino a qualche tempo fa sembravano letteralmente scomparsi, cancellati dalle malattie della vite di fine Ottocento e dal successivo sviluppo industriale. Poi, come per miracolo, sono ricomparsi. A Varese i progetto Igt è nato con la vendemmia 2001. Dopo un’indagine conoscitiva e le prime microvinificazioni curate dall’Università Statale di Milano, la Provincia e la Camera di commercio stanziarono i quattrini necessari per definire le zone vocate a produrre il vino e il Ministero delle politiche agricole approvò il progetto dell’Indicazione Geografica Tipica Ronchi Varesini nel mese di luglio del 2005. Il disciplinare di produzione prevede vini bianchi, fermi e frizzanti, ottenuti con uve Riesling italico e Tocai ungherese, con l’aggiunta di Trebbiano, Chardonnay, Pinot Grigio e altre varietà; oppure rossi e rosati, composti per almeno il sessanta per cento da uve Barbera, Merlot, Nebbiolo e Croatina e per il quaranta per cento da altri vitigni raccomandati tra Pinot Nero, Bonarda piemontese, Vespolina, Uva Rara e Freisa.
Per il Varesotto significò la
rinascita ufficiale della vitivinicoltura dopo oltre un secolo
d’abbandono.
PICCOLA BORGOGNA LECCHESE E’ bastato mettere in cantiere il progetto Igt per far nascere nuove aziende agricole e cantine vitivinicole sulle colline del versante lombardo del lago Maggiore. I ristoratori hanno incominciato a studiare gli abbinamenti dei vini locali con i piatti della cucina tipica (luccio, tinca ed anguilla in umido, faraona alla creta, risotti, brasati ecc.). Le amministrazioni pubbliche s’industriano da allora su come difendere il territorio agricolo ed evitare che sia divorato dall’edilizia. Anche gli agriturismi non nascondono il loro interesse verso lo sviluppo della filiera del vino e, se ancora non posseggono i vigneti, intuiscono che cantine e barriques potrebbero diventare un fattore turistico trainante nel prossimo futuro.
Con una piccola deviazione spostiamoci di qualche chilometro ed eccoci nel Lecchese. Se era piccolo ai tempi di Carlo Porta, il vigneto è oggi quasi impercettibile, concentrato sui crinali terrazzati del Parco Naturale di Montevecchia e della Valle del Curone, un anfiteatro collinare che domina la pianura padana, una piccola Borgogna a cinquanta chilometri da Milano alle cui spalle svettano le sagome delle Grigne e del Resegone di manzoniana memoria. Anche qui da alcuni anni è in atto la rinascita della viticoltura, merito di pochi vignaioli che offrono accoglienza e buona cucina. E’ una zona in posizione incantevole e ben esposta al sole, con ventilazione costante, temperature elevate in estate ed escursioni termiche notturne. I contadini hanno impiantato barbatelle a bacca bianca e cloni borgognoni di pinot nero, i filari corrono su strette terrazze ricavate lungo il ripido pendio della collina e ricordano la “viticoltura eroica” della Liguria e della Valtellina. Ma una domanda ci riporta all’autore dei brindes de Meneghin all’ostaria e alla sua velata polemica politico-enologica: l’impianto ai giorni nostri dei cloni di Pinot Nero della Borgogna contraddice il poeta milanese che ce l’aveva con i vini stranieri? Niente affatto. Il sottile sarcasmo del “sciur Porta” oggi non avrebbe ragion d’essere. La moderna enologia mischia vitigni ed etnie diverse e sposa uve autoctone con quelle d’importazione, la Vespolina al Merlot, il Nebbiolo con il Riesling; proprio come l’imperatore francese portò all’altare l’austriaca Maria Luisa. Di fianco alle vigne prosperano gli agriturismi che offrono ospitalità lombarda. Nei menu degustazione figurano salumi caldi, risotto con verza e salsiccia, zuppa di cipolle, zuppa con crostoni e pane giallo, ossobuco in umido con la polenta, stinco di maiale con le verdure, torta paesana e crostata con la marmellata ai frutti di bosco. Da innaffiare, naturalmente, con un vino da far resuscitare Carlo Porta. Alla salute! Dal Brindes de Meneghin a l’Ostaria per l’entrada in Milan de Sova S.C. Maistaa I.R.A. Franzesc Primm in compagnia de sova miee l’Imperatriz Maria Luvisa. Milano, 1815. (traduzione di Giovanni Staccotti)
“…. vorrev mettegh lì tucc in spallera i nost scabbi, scialos e baffios, quell bell limped e sodo d’Angera, quell de Casten brillant e giusos, quij grazios – de la Santa e d’Osnagh quell magnifegh de Omaa, de Buragh, quell de Vaver posaa e sostanzios, quell sinzer e piccant de Casal, quij cordial – de Canonega e Oren, quij mostos – nett e s’cett e salaa de Suigh, de Biasson, de Casaa, de Bust piccol, Buscaa, Parabiagh, de Mombell, de Cassan, Noeuva e Des, de Maggenta, de Arlaa, de Vares e olter milla million – de vin bon, che s’el riva a saggiaj el Patron, nol ne bev mai pù on gott forestee; fors el loda, chi sa, el cantinee e fors’anca el le ciamma e el ghe ordenna de inviaghen quaj bonza a Vienna”
“…..vorrei mettergli tutti in mostra i nostri vini, generosi e coi baffi, quello bello limpido e sodo d’Angera, quello di Castano brillante e sugoso, quelli graziosi della Santa e di Osnago, quello magnifico di Omate, di Burago, quello di Vaprio posato e sostanzioso, quello sincero e piccante di Casale, quelli cordiani – di Canonica e Oreno, quelli mostosi – netti e schietti e saporiti di Sovico, di Biassono, di Casate, di Busto piccolo, Buscate, Parabiago, di Mombello, di Cassano, NOva e Desio, di Magenta, di Arlate, di Varese e altri mille milioni- di vini buoni, che se arriva ad assaggiarli il Padrone, non ne beve mai più un goccio forestiero; forse loda, chi sa, il cantiniere e forse anche lo chiama e gli ordina di inviargliene qualche carro-botte a Vienna”. |
04/2014 Sergio Redaelli |