Dante, alpinista? Noi salavam per entro 'l sasso rotto, e d'ogne lato ne stringea lo stremo, e piedi e man volea il suol disotto (Pur. IV, 31-33) |
Un
ritratto curioso ed inaspettato. Un personaggio ben diverso
dall'immagine tradizionale del sommo poeta rappresentato con la sua
austera toga rossa e la testa cinta dalla nobile corona d'alloro. Ne
era convinto Ottone Brentari, geografo e giornalista di manifesta
fede irredentista che, nel 1887, pubblicò
sul Bollettino del Club Alpino Italiano un articolato saggio
intitolato “Dante alpinista”.
Sovente il poeta racconta l'ansia di raggiungere una sommità, la fatica della salita, il desiderio di fermarsi per riprendere fiato, la necessità di aiutarsi con le mani quando i piedi non bastano. E ancora, come succede spesso a chi cammina in montagna, la richiesta d' aiuto a chi si incontra lungo la via per ritrovare il sentiero smarrito quando scende la nebbia o l'osservazione del corso del sole e degli astri per orientarsi. Dante, sostiene Brentari, non avrebbe potuto essere così dettagliato nelle sue descrizioni se non avesse sperimentato personalmente la pratica dell'alpinismo. Noi divenimmo intanto appiè del monte: quivi trovammo la roccia sì erta che
indarno vi sarien le gambe pronte (Purgatorio III, 46-48) Le montagne che il poeta toscano frequentò più spesso furono verosimilmente l'Appennino toscano, le Alpi Apuane e i monti della Liguria. Indubbia è la sua conoscenza della Pietra di Bismantova e del monte Falterona dalle cui pendici nasce l'Arno. “Veramente io vidi lo luogo nelle coste d'un monte in Toscana, che si chiama Falterona” scrive Dante nel Convivio. Sulla sua vetta, da cui lo sguardo può spaziare da un lato sulla valle dell'Arno, dall'altro sulle terre del Montefeltro, sembrano essere stati composti i versi del XIV canto del Purgatorio nei quali il poeta, seguendo il corso del fiume e ricordando i luoghi che esso attraversa, scaglia un'accesa invettiva contro tutti gli abitanti di questi territori. Durante gli anni del suo doloroso esilio, ospite di Cangrande della Scala a Verona, probabilmente percorse le Prealpi veronesi e vicentine e visitò forse anche luoghi curiosi e particolari dei Monti Lessini. Nella “ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adige percosse” alcuni riconoscono, nei pressi di Verona, il Ponte di Veia che avrebbe suggerito a Dante l'idea dei ponti di Malebolge.
Più verosimilmente, invece, la descrizione potrebbe riferirsi alla frana presso Marco, nelle vicinanze di Rovereto. Dante l'avrebbe vista forse durante un suo soggiorno nel castello di Lizzana, ospite dei Conti di Castelbarco che occupavano un posto eminente presso la corte degli Scaligeri. Brentari raffronta la sua esperienza di alpinista con quella di Dante trovando molti elementi di contatto. Lo sente vicino quando, in ogni circostanza, non si perde d'animo ma, con determinazione e con l'aiuto della sua guida, trova il modo di salire sempre più in alto verso il monte del Paradiso o scendere, attraverso dirupi e spaccature della roccia, nei gironi infernali. Numerosi i versi in cui Dante descrive la salita attraverso canali e fenditure aggrappandosi o spingendosi con le mani. Il poeta, come un buon alpinista, procede per gradi, accenna ai suoi passi in salita o in discesa con tale precisione da essere paragonato a chi è avvezzo a camminare in montagna. Lo duca ... così, levando me su ver la cima d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: “Sovra quella poi t'aggrappa; ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia”. Non era via da vestito di cappa, chè noi, a pena, ei lieve, ed io sospinto, potevan
su montar di chiappa in chiappa (Inf. XXIV, 27-33) Secondo Brentari “solo un vero alpinista qual era Dante, poteva esprimersi in modo così breve, preciso e pittoresco”. Quando sale sulla sommità dello sperone roccioso che separa la sesta dalla settima bolgia di Malebolge, sembra aver provato la gioia e la fatica dell'alpinismo.
Come
chi sale su una montagna, trovandosi senza più fiato vorrebbe
fermarsi a riposare, Dante è incoraggiato a salire dalla sua guida
che lo incita a vincere “ogni
ambascia”
per affrontare “una
più
lunga
scala”.
Rassicurato da Virgilio si mostra pieno d'energia, più di quanto non
lo sia realmente e, fiducioso, continua la salita parlando per non
sembrare senza respiro: Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole ed erto più assai che quel di pria. Parlando andava per non parer fievole. (Inf. XIV, 61-64) Chi, abituato ad andare in montagna, può non aver provato queste stesse sensazioni? In tono tra il sarcastico e l'ironico Brentari ricorda che “per arrivare alle vette dei monti non basta farsi soci del Club Alpino e portare lo stemma sul cappello”. Ugualmente, prendendo spunto dalle sette P, simbolo dei peccati capitali, che l'Angelo confessore imprime sulla fronte di Dante, non perde l'occasione per divertirsi a spiegare le sette P che un alpinista, se vuol giungere sulla cima di una montagna, non deve essere: Poltrone, Pavido, Pigro, Pacifico,Pesante, Palpitante, Panciuto. Lo scrittore chiude il suo saggio con un invito alla lettura ed allo studio di Dante da cui ritiene che tutti gli alpinisti (ma non solo) potrebbero imparare ad esprimersi con precisione e verità apprendendo termini e vocaboli utili per dar vita ad una comune “lingua alpinistica”, ancora da formare nel nostro Paese a fine Ottocento.
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Maggio 2021, Rosalba Franchi |