negli affreschi e negli stucchi di San Pietro al Monte di Civate - Carlo Castagna |
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Una visita a San Pietro al Monte è un’esperienza unica d’immersione in una narrazione simbolica che coinvolge ogni suo elemento, dalla pluralità delle forme geometriche all’intreccio dei numeri, dall’originalità dell’architettura all’emozione dell’affresco, dalla dotta citazione biblica alla semplicità immediata dell’immagine iconica, dalla leggerezza dell’arte plastica al fascino della fusione con l’ambiente naturale che lo circonda. E ogni volta il visitatore attento può penetrare sempre più in profondità tali rimandi simbolici e scoprire nuovi segreti che il messaggio secolare del complesso basilicale nasconde in piena luce in ogni dimensione. Un aspetto che sembra ancora inesplorato è, ad esempio, quello relativo alla simbologia animale che colpisce lo sguardo del visitatore già dall’ingresso. Due pesci immersi nell’acqua azzurrina, un po’ impacciati nelle forme caratteristiche spesso approssimative della figurazione pittorica del romanico, lo accolgono ormai da un millennio. L’alto e il basso medioevo, in verità, furono epoche in cui gli uomini in particolare modo vissero strettamente e inevitabilmente a contatto con la natura. Non è pertanto strano che figurazioni reali o fantastiche, spesso simboliche, di piante e animali facessero immediatamente parte integrante della vita quotidiana e, di conseguenza, della loro cultura in narrazioni orali, scritte o figurate che raccontavano il loro mondo. Nella descrizione della realtà e nella sua trasfigurazione, come nell’elaborazione del pensiero, nella manifestazione della fede e nell’elaborazione dell’arte emergevano dunque con naturalezza numerose figure zoomorfe, vegetali, cosmiche a rappresentare, simbolicamente, l’universo della comune conoscenza. Soprattutto l’espressione della fede nell’arte, quando la creatività della mente tendeva ad allontanarsi spontaneamente dalla mera rappresentazione del reale per avvicinare il più possibile al concetto contenuto nella traduzione verbale o visiva del pensiero, utilizzava la figurazione d’animali, piante o elementi e fenomeni fisici, mutuati dall’insieme della stessa natura. L’arte assumeva così un’intensità e varietà espressiva straordinaria, più pregnante, che in varie forme e modalità s’allontanava dalla semplice riproduzione del reale, tanto da rifiutarne una mera riproduzione armonica ed equilibrata in forme e dimensioni, per elevarsi sino alla pura astrazione simbolica. Di conseguenza, i linguaggi che a più alto livello hanno scandagliato allora la profondità del pensiero dell’uomo medioevale, ossia il romanico e il gotico, hanno fatto dell’espressione simbolica lo strumento principe del proprio racconto. In realtà, per Civate è limitativo indicare San Pietro al Monte come punto d’origine dell’arte e della profonda simbologia che la pervade. Infatti, la presenza franca, cui si fa risalire la sua prima fondazione, fu preceduta sicuramente dalla presenza ligure, celtica, romana e bizantina che hanno lasciato traccia documentale a partire dal Buco della Sabbia, coi suoi resti funerari, sino a quella che ancora oggi è conosciuta come la chiesa de La Santa1. Se per i reperti relativi al Buco della Sabbia è forse improprio usare il termine “arte” per i monili conservati, è tuttavia possibile riconoscere nella scelta e trasformazione di materiali costitutivi come il rame, ossa e denti di animali, un significato simbolico di riferimento. I tardi resti di arredo funerario romano si accompagnano poi alla presenza del luogo di culto agrario dedicato a Cerere, la Sancta Mater Agraria, cui i bizantini successivamente sovrapposero le simbologie del culto della chiesa orientale con San Mamete (a volte indicato come Mama o Mametto), che in Cappadocia aveva sostituito il culto di Cibele, dea della natura e dell’agricoltura. Il culto romano si celebrava nella cripta in cui sgorgava direttamente una sorgente e i bizantini, nel loro breve periodo di permanenza sul territorio, avevano conservato l’attuale ipogeo. Purtroppo non rimane oggi la figurazione pittorica o plastica romana a descrizione del rito e dell’ambiente naturale circostante, ma resta l’ultima testimonianza del 1608 della permanenza di San Mamete: “A latere aquiloni Ecclesiae in pariete picta visitur Imago S.ti Mamettis martiris, antequa adest rastrum ligneum cum nonnullis rebus huic sancto oblatis2”. La concisa relazione dimentica di specificare però che San Mamete3 era ritratto in tipici abiti orientali, in ambiente agreste, attorniato da animali domestici e leoni secondo le simbologie presenti in Anatolia già in secoli precedenti il cristianesimo. La sua sovrapposizione alla dea Cibele4 infatti, presupponeva l’uso delle stesse caratteristiche iconografiche di protettrice dei campi e delle messi, oltre che degli animali domestici e selvatici. Tali elementi furono la premessa alle figurazioni plastiche e pittoriche zoomorfe o di elementi del mondo vegetale e alle loro complesse simbologie religiose e misteriche che dovevano accompagnare la ritualità delle celebrazioni anche in epoche successive, testimoniate a Civate in San Pietro al Monte, nella basilica di san Calocero e, successivamente, con diversa immersione culturale e cronologica, nella Casa del Pellegrino. L’espressione delle simbologie zoomorfe dunque, rappresenta uno degli aspetti fondamentali della narrazione artistica, mistagogica, simbolica e letteraria presenti in San Pietro, una chiave di lettura ineludibile per comprendere nella sua pienezza il messaggio di fede che rappresenta l’unica finalità della realizzazione di tale capolavoro dell’arte, ma anche lo svolgersi dei costumi medioevali e il loro raccontarsi figurativo. Credo sia di conseguenza utile tracciare un filo per quanto possibile di ricongiunzione, anche se spesso purtroppo interrotto dall’infierire del tempo e soprattutto dell’uomo, che tracci la presenza di simbologie zoomorfe e del mondo vegetale e cosmico in esso sopravvissute, in ambito pittorico e plastico.
Rieccoci dunque ai due5 pesci, rappresentati simmetrici all’ingresso dell’endonartece di San Pietro al Monte: due immagini che, con sacralità, accolgono premurose il pellegrino all’interno del tempio. Il pesce è simbolo zoomorfo di Cristo sin dai primordi del cristianesimo, riprodotto sulle pareti delle catacombe dove erano costretti i primi adepti alla religione giunta a Roma con Pietro e Paolo dalla lontana Palestina. Pertanto il pesce sottolinea anzitutto il legame indissolubile tra questo edificio e il Cristo della Chiesa romana dei due apostoli, cui la basilica stessa è dedicata. Il pesce poi, in greco è ’Іχθύς (ictùs), acronimo di ‘Іησõυς Χριστός Θεõυς ύιός σωτήρ (Gesù Cristo di Dio Figlio Salvatore) ed esso, immerso nell’acqua battesimale6, esprime il principio e l’origine sacramentale del percorso di vita del cristiano nella Chiesa. Al di sopra, nelle vele della crociera, il Vivente7 dell’Apocalisse ha ai suoi fianchi due Alberi di Vita: “In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell'albero servono a guarire le nazioni (Apocalisse 22,2)”. Due alberi appaiono già nella Genesi (2,9): “Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male”; Genesi (2,17): “… ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”; Genesi (3,22): “Il Signore Dio disse allora: «Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre!”. Il riferimento dell’Apocalisse prosegue ancora nello stesso capitolo con una profezia di bene e una minaccia di punizione: “Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all'albero della vita e potranno entrare per le porte nella città (22,14)”, “… e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell'albero della vita e della città santa, descritti in questo libro (Apocalisse 22,19)”.
La narrazione figurata continua illustrando il primo versetto del capitolo 22 dello stesso testo: “Mi mostrò poi un fiume d'acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello”, in cui quest’ultima immagine riassume un significato complesso che raccoglie non solo una simbologia che ha origine lontana nel mondo ebraico, in cui l’Agnello Pasquale è simbolo del sacrificio, ma assume nuova significazione cristiana in Giovanni che descrive sette sigilli simbolici che chiudono un libro8. L’unico degno di aprirli è chi viene chiamato leone della tribù di Giuda9 e agnello con sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra10 . Nelle antiche scritture ebraiche, il sigillo svela una sua simbologia precisa: il Messia doveva imprimere un suggello sulla visione e sul suo profeta, in tal modo certificava che le sue parole erano autentiche e ispirate da Dio11.
L’elemento
naturale dell’acqua, già presente nelle immagini dei
pesci, è anch’esso simbolo della sorgente indispensabile
di vita e si fonde con la necessità spirituale della fede, che
essa rappresenta, offerta con gratuità. Il Vivente,
infatti, tiene nella destra un libro aperto su cui si legge: Qui
sitit
veniat
(Chi ha sete venga). E quindi l’acqua che sgorga si divide in
quattro ruscelli che vanno direttamente a confluire nella scena
dipinta nella successiva crociera, in capaci otri, da cui i
personaggi che raffigurano i quattro fiumi che bagnano il Paradiso
Terrestre:
Geon,
Phison,
Tigri
ed Eufrate,
la versano all’apice dei capitelli fioriti di quattro colonne
tortili.
Ruotando lungo le stesse colonne, l’acqua simbolica giunge sino a terra, offerta a coloro che liberamente ne vogliano trarre ristoro spirituale. L’acqua è simbolicamente legame fra la Gerusalemme Celeste e il Paradiso terrestre, mentre le quattro colonne tortili, apparentemente identiche, ma in realtà divise in 3 e 1 dalla direzione delle volute, indicano non solo il legame fisico fra terra e cielo, ma anche la presenza, nel segno di terra, dell’unità e trinità divina12. L’insieme delle due scene apocalittiche, nel loro significato escatologico, rappresentano dapprima la rivelazione del traguardo della Gerusalemme Celeste, meta finale destinata al cammino del fedele che entra nel Tempio, ascolta la Parola e la mette in pratica, e poi la gratuita offerta dell’acqua salvifica della grazia battesimale come conforto e sigillo al proprio cammino.
Legano
in coppia tra loro le colonne due plutei
in stucco, su cui sono magistralmente incise le immagini del Grifo
e della Chimera13
tratte direttamente dai bestiari14
medioevali. L'aquila
indica l'intelligenza per la sua grande capacità di vedere da
molto lontano; il leone la forza e il coraggio, il serpente/lupo
l’astuzia. Dunque il Grifo è,
nel mondo classico, l’insieme della forza indirizzata
dall’intelligenza e assistita dalla furbizia che svela gli
inganni. La Chimera invece
assomma negativamente la violenza del leone, la perfidia subdola del
serpente/lupo e la lussuria del capro. Tali simboli, come strumenti
del mondo corrotto, interpretano il male cui conduce l’ambiguità
delle virtù umane ed essi fuggono dalla chiesa, luogo, per
converso, riservato solo al bene.
L’attigua
cappella dei santi si distingue per la millenaria simbologia del
tetramorfo
(τετρα
μορφή),
cioè delle quattro forme, antico richiamo egizio a
raffigurazioni di figure zoomorfe, alle costellazioni, alla
tradizione
sumerica e iranica e allo zodiaco assiro-babilonese15
nelle immagini di toro,
aquila,
leone
e uomo.
Nella tradizione greca gli elementi sono identificati
con fuoco (
È
il profeta Ezechiele, probabilmente influenzato dall’arte
assiro-babilonese durante la sua prigionia16,
che introduce per primo nella
realtà testamentaria
l’immagine del tetramorfo
nel suo primo libro (Ezech. 1, 4-11): “Io
guardavo, ed ecco un vento tempestoso avanzare dal settentrione, una
grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto
intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di metallo
incandescente. Al centro, una figura composta di quattro esseri
animati, di sembianza umana con quattro volti e quattro ali17
ciascuno. Le loro gambe erano diritte e i loro piedi come gli
zoccoli d’un vitello, splendenti come lucido bronzo. Sotto
le ali, ai quattro lati, avevano mani d’uomo; tutti e quattro
avevano le proprie sembianze e le proprie ali, e queste ali
erano unite l’una all’altra. Quando avanzavano, ciascuno
andava diritto davanti a sé, senza voltarsi indietro. Quanto
alle loro fattezze, avevano facce d’uomo; poi tutti e quattro
facce di leone a destra, tutti e quattro facce di toro a sinistra e
tutti e quattro facce d’aquila. Le loro ali erano spiegate
verso l’alto; ciascuno aveva due ali che si toccavano e due che
coprivano il corpo”.
La seconda visione ancora una volta deriva dall’Apocalisse che narra: “Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola. I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere: Santo, Santo, Santo il Signore Dio l’Onnipotente, Colui che era, che è, che viene!”18. Fu Ireneo di Lione, già dal II secolo, a identificare la rappresentazione del tetramorfo in Giovanni con le figure degli evangelisti, sostenuto dall’opinione di Ambrogio vescovo di Milano, che la lega sia ad alcuni versetti sia al Libro dei Giudici che della Genesi, oltre all’Apocalisse, finché San Gerolamo giunse a sostenere che l’immagine sintetizzava la totalità del mistero cristiano: l’uomo alato è l’Incarnazione, il bue la Passione, il leone la Resurrezione, l’aquila l’Ascensione. In esso si riassumono, infatti, le quattro fasi della vita di Cristo che, nato uomo, diviene agnello sacrificale, risorge come un leone e ascende al cielo come aquila (fuit homo nascendo, vitulus moriendo, leo resurgendo, aquila ascendendo). Tali immagini vengono collegate da questo padre della Chiesa ai quattro vangeli, fondendovi per ciascuno le caratteristiche che vi imprime il loro autore. Così il Vangelo di Matteo è identificato con l’uomo-angelo perché l’autore esordisce con la genealogia terrena di Gesù e quindi narra l'infanzia del Figlio dell'Uomo, evidenziandone la dimensione umana. Il Vangelo di Luca è rappresentato dal leone, perché all'inizio della narrazione appare Giovanni Battista, Vox clamantis in deserto (Voce che grida nel deserto) che si eleva come un ruggito. Il testo di Luca è ricordato dal bue o dal vitello, simbolo del sacrificio compiuto da Zaccaria19, che apre lo stesso Vangelo. Infine il racconto di Giovanni è figurato dall’aquila, perché in esso v’è la più alta visione spirituale e teologica volta all’Assoluto20. Un’ulteriore descrizione meno conosciuta del tetramorfo, che ricalca tuttavia quella di Ezechiele21, si trova pure al capitolo XVII dell’Apocalisse di Abramo, un testo giudaico, apocrifo, risalente al I secolo d.C22. Nel catino dell’abside, il Vivente è sostenuto nella mandorla sfumata dei colori cangianti dell’iride da due angeli, spiriti che si pongono tra cielo e terra nell’incontro fisico dell’arcobaleno, esplosione sorprendente di luce in un arco ideale che svela la possibile unione cosmica tra il divino e l’umano.
Sulla
controfacciata, a coronamento dell’endonartece, si svolge
straordinariamente un intero capitolo figurato dell’Apocalisse,
il XII, che nella sua ricchezza di particolari evidenzia una
molteplicità di elementi simbolici zoomorfi e cosmologici
all’interno di una preziosa cornice di stucco che è un
vero e raffinato merletto, intreccio vagamente vegetale,
d’incredibile fattura. Il testo visibile, seguendo nel
dettaglio il racconto dell’apostolo, descrive la Vittoria
del Bene sul Male.
Al suo inizio: “Nel
cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con
la luna sotto i suoi
piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle23”, il
sole, rappresentato come una sfera, allunga all’intorno i raggi
preziosi di luce dorata, ma la sua consistenza via via si oscura
sempre più al suo interno! È il rivelarsi di una
terribile catastrofe che minaccia l’intero universo, di cui
l’astro solare è gigante potente, assoluto nella scienza
astronomica medioevale! E tale rivelazione è rafforzata dalla
flebile luce della già fragile falce di luna che, ai piedi
della donna e quasi tra le fauci minacciose di un mostro minaccioso,
sembra via via assottigliarsi per la paurosa sorpresa e il crescente,
inimmaginabile terrore. Infatti: “Allora
apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette
teste e dieci corna e sulle teste sette diademi24.
Il possente drago, nella sua sfavillante prepotenza di fuoco è
alato, ad indicarne la natura di pericolo spirituale. ![]()
“La sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra”: e le stelle trascinate nel fango della terra dall’infinita e inviolata volta celeste sono ridotte a nera, insignificante apparenza, private della loro splendida luce, pur conservando nella forma un’ultima sottile armoniosa perfezione. In loro sono ormai cancellate le singolari virtù che hanno guidato da sempre gli uomini nella solitudine della notte. Eppure il Bene non può soccombere al Male, che è sconfitto dalla forza irresistibile e fedele delle schiere angeliche: “Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli”. E per concludere, la libertà interpretativa dell’artista riassume in una sola apparenza d’ombra, che cancella la loro identità, il precipitare disperato e scomposto degli angeli/démoni in una profonda palude di fuoco25. In alto, domina la suggestione avvincente dell’affresco sottostante, in un tondo perfetto di stucco, l’altorilievo con l’immagine plastica dell’Agnello in piedi, simbolo del sacrificio di Cristo, posto come chiave di volta nello svolgersi del sottile intarsio del grande arco a tutto sesto. È Lui, infatti, nella Resurrezione il vero vincitore definitivo sul male della morte.
Il
tempo e la mano dell’uomo hanno purtroppo cancellato l’intero
ciclo di affreschi che ricopriva completamente le due pareti laterali
della navata. Rimane fortunosamente sulla parete destra del
presbiterio un grande lacerto d’affresco, miracolosamente
coperto dal primo dei quadri votivi che, a partire dal XV secolo
hanno sostituito quello che doveva essere lo splendido racconto
teologico del nuovo testamento che arricchiva l’interno del
tempio.
Lo strappo del dipinto rinascimentale ha liberato nei suoi contorni i resti parziali di due grandi quadri romanici incorniciati da fasce di colore e losanghe che chiudono l’enigmatica narrazione dell’antico dipinto. Sono troppo pochi gli elementi per dare con certezza un contenuto ai lacerti, ma nel più ampio si legge chiaramente l’azzurro di morbide onde in cui dibatte la nudità di alcuni piedi, forse parte del brano della “pesca miracolosa”, di cui purtroppo non è rimasto il ricco raccolto. Eppure, anche da pochi resti si evince l’importanza dell’elemento naturale dell’acqua, che riprende la simbologia ininterrotta dell’ingresso alla basilica. Nella sottostante fascia decorativa, ad ampie greche, s’intravvedono immagini zoomorfe: sono uccelli, che con le loro ali possono alzarsi dalla terra e raggiungere il cielo mostrando al fedele il percorso che conduce all’Infinito. Essi, nel loro muto linguaggio legavano il confine inferiore del racconto alle fasce decorative gemelle degli splendidi due registri d’affreschi di San Calocero, intercalate con pavoni, cigni, arabe fenici e fagiani26…
A
metà navata, sul fianco destro, rimane uno dei due parapetti
che proteggevano le scale simmetriche d’accesso all’attuale
cripta. Il manufatto è magnificamente conservato, ricoperto da
tre grandi quadri con cornice floreale in stucco, modellato a
bassorilievo. La cornice stessa, nel medioevo d’importanza
preziosa per l’ambientazione narrativa delle scene
rappresentate sia in ambito figurativo che letterario, è
costituita da elementi ripetitivi di carattere vegetale con steli e
foglie che contengono nel primo quadro posto ad oriente, in basso a
sinistra, la chiave di lettura dell’intera trilogia. Questa
chiave è simbolicamente rappresentata da una coppa rituale che
contiene il principio vitale, una specie di calice che i greci
chiamavano ϕιάλη
(phiale), i romani patĕra
e nel medioevo diventò in letteratura il graal.
Infatti, nella prima scena l’immagine del calice è al
centro e da essa nascono dei virgulti con grandi foglie a
simboleggiare l’origine d’un mondo naturale in cui vivono
e di cui si nutrono un grifo
alato34
e un leone.
Già si è visto il significato attribuito al grifo,
tratto dai bestiari medioevali, che qui si può leggere come
animale mitologico, ma anche trascendente l’appartenenza
terrena, tra realtà e sogno, che, come nelle narrazioni della
genesi del mondo, in cui l’albero della vita nasce dalla coppa
sacrale, convive e si confronta con la primitiva presenza dell’uomo,
identificato nel leone.
Nel quadro successivo continua la crescita del virgulto che attraversa una maschera, in latino persona, e genera ancora foglie, ma anche un frutto, l’uva, simbolo di un nutrimento vitale prodotto dal lavoro intelligente e razionale dell’uomo, rappresentato da due leoni che se ne cibano.
Fra
il secondo e il terzo quadro narrativo la cornice diviene parte
integrante del discorso figurato. In essa, come da una finestra
aperta direttamente sul Giardino
dell’Eden,
si scorge l’albero
della Conoscenza
del
Bene e del Male,
sul cui fusto s’arrampica il Serpente
tentatore
con nelle fauci un frutto.
Anche questa è una chiave di volta che consente di comprendere
lo svolgersi razionale del racconto: Cristo, alzato nel suo
sacrificio
sulla croce
come il serpente
di bronzo35
innalzato da Mosè nell’antico Testamento, vincendo
la morte
ha riscattato l’uomo dal peccato
originale,
restituendo all’umanità la possibilità della
Salvezza.
Il terzo quadro, infatti, sottolinea la realizzazione di tutto questo. Esso ripropone l’immagine del viticcio, ma questi, oltre alle foglie, produce dei pesci, l’Іχθύς simbolo di Cristo già incontrato all’ingresso del tempio. Questi vengono mangiati da due leoni, che il cibo straordinario trasforma all’istante. Infatti, non solo la parte posteriore del corpo dei leoni si trasforma prendendo le sembianze di una coda di pesce, ma i leoni stessi divengono alati, cioè si trasformano in esseri spirituali. Il senso profondo, mistagogico, della scena interpreta l’affermazione originaria di Tertulliano36 di come il cristiano, cibandosi di Cristo, divenga quasi alter Christus (altro Cristo)37. Il Ciborio ![]()
Il ciborio poi è un vero capolavoro d’architettura, completato dall’arte plastica all’esterno e pittorica al suo interno. Di esso s’è persa nel tempo la decorazione delle colonne in stucco ed i capitelli, che ora appaiono rifatti in gesso con motivo corinzio a foglie d’acanto, scaturite dal gusto umanistico-rinascimentale. Al di sopra dei capitelli, che sorreggono i frontoni originali, una cuspide termina una cornice floreale simile ma non identica a quella dell’affresco della Parusìa38.
All’incontro
fra capitelli e colonne sono modellati, in maniera magistrale e a
tutto tondo, le quattro figure simboliche del tetramorfo,
in cui risaltano con singolarità di rappresentazione le
immagini animali e umana, tutte con ali che ne suggeriscono al fedele
l’intima essenza spirituale. Particolarmente interessante tra
esse è il leone,
non per il significato simbolico di cui già si è detto,
ma per la morfologia con cui è rappresentato, che si stacca
nettamente dall’immagine classica, quasi naturale, con cui lo
stesso soggetto è dipinto in una vela che introduce alla
cappella
dei santi.
E neppure perché sul ciborio essa risulti strana o fantastica,
magari derivante da un improbabile bestiario, ma per il fatto che,
come leone, l’autore ha preso a fedele modello reale un
mastino, cui manca ovviamente la criniera tipica del feroce felino
selvaggio che conosciamo. Mi piace ipotizzare che forse, per questo
monaco-artista medioevale, esso rappresentasse l’animale più
feroce, vicino all’immagine a lui sconosciuta del leone, da lui
mai incontrato, magari incrociandolo involontariamente nel cortile di
qualche fortilizio signorile o isolato castello: l’esperienza
certo più traumatica e terrificante della propria vita!
Sul pennacchio del frontone orientale, in cui si rappresenta la deesis occidentale39, svetta l’aquila, simbolo del potere imperiale tedesco a conferma dell’appartenenza del monastero40, mentre accanto al volto di Cristo il Sole e la Luna testimoniano l’universalità dell’evento. L’interno del ciborio riporta al libro dell’Apocalisse, sia nella rappresentazione cosmica del cielo, concepito come una semisfera sostenta da quattro angeli dalla cui mano sinistra sono trattenuti i venti41, qui figurati con forme indefinite costituite da piume e da ali, sia all’interno della cupola celeste con i segnati col sigillo delle tribù d’Israele42 . Al centro si trova il simbolo dell’Agnello sacrificale43.
Anche in cripta, purtroppo, la distruzione dovuta all’infierire del tempo e degli uomini ha lasciato solo una parte della narrazione pittorica e plastica. Sottolineerei solo due elementi inerenti al tema qui trattato: la decorazione dei capitelli e delle lesene dietro l’altare e l’albero della croce. La cripta è senza dubbio l’ambiente che presenta l’espressione artistica più antica dell’intero complesso. Lo si deduce da due elementi: anzitutto l’utilizzo del fogliame nella decorazione in stucco delle colonne, unico rivestimento rimasto, pur in parte, delle stesse. L’utilizzo di elementi legati alla natura, soprattutto viticci e foglie o elementi geometrici, è tipica di un’arte quasi “rurale” di artisti che vivono fortemente il rapporto con l’ambiente agricolo e i suoi elementi fisici. E qui, la realizzazione stessa “a mano libera” e le dimensioni del fogliame decorativo, quasi fosse realmente il completamento “a chioma” della colonna-albero direttamente inserita nel suolo, pare rispecchino tale vicinanza simbolica. Anche le semicolonne, che delimitano in verticale i due registri sovrapposti della Crocefissione e della Dormitio Virginis, che potrebbero definirsi due lesene, hanno le medesime caratteristiche: modellate “a mano libera” e composte da viticci e foglie entro una stretta cornice lineare.
Ancor più suggestivo per la sua trasparente simbologia naturale risulta l’albero della croce nel registro inferiore della deesis occidentale. Infatti, la croce non solo è evidentemente in legno, ma essa è costituita da un vero albero che porta direttamente sul suo tronco delle gemme vegetali. Esse compaiono dietro i pochi resti del corpo di Cristo e sono colte sul punto di sbocciare, raccontando al fedele il mistero dell’identità della croce con l’albero della vita, questa volta una vita nuova, redenta dal Salvatore che ha sacrificato sé stesso per l’umanità. Con la sorprendente e delicata immagine di tenere gemme che sbocciano in futuri germogli di vita si conclude questo percorso fra le simbologie di animali, piante, cosmo e natura che il trascorrere del tempo e l’incuria degli uomini ha risparmiato per noi visitatori. Esse lasciano nei nostri animi il rimpianto per tutto ciò di mirabile che non potremo mai più ammirare, ma anche il profondo stupore, l’incanto della scoperta e l’entusiasmo della conoscenza che ancora oggi tali simboli possono trasmettere al nostro animo alla ricerca dell’Assoluto nell’arte, nella storia degli eventi umani e nella bellezza. Note: 1 I resti documentati del Buco della Sabbia si trovano presso il Museo Civico Giovio di Como, quelli romani presso il Museo Civico di Lecco, mentre la testimonianza scritta dell’affresco nella chiesa de La Santa nei Decreta Visitationis alla Parrocchia di Civate da parte di Antonio Albergato, visitatore incaricato dal Card. Federico Borromeo nel 1608, in Archivio Parrocchiale di Civate. Per una conoscenza più approfondita degli argomenti si consiglia la consultazione in particolare dei seguenti volumi: CASTAGNA C., Frammenti per un restauro. S. Nazaro di Civate, Oggiono-Lecco, 1992; CASTAGNA C., La Cultura di Civate, Cattaneo, Oggiono, 2011; CORNAGGIA CASTIGLIONI O., La Cultura di Civate: una nuova facies arcaica della Civiltà eneolitica della Lombardia, in Natura, 62/1, Milano, 1971¸ CASTAGNA C., … e un monastero a valle, visita a San Calocero di Civate, Amici di san Pietro, Grafiche Riga, Oggiono, 2015. 2 Sulla parete laterale nord della chiesa si osserva dipinta l’immagine di S. Mametto martire, davanti alla quale vi è un rastrello di legno con moltissimi oggetti offerti a questo santo. 3 Rare sono ancora le chiese dedicate a questo santo orientale. Una, con affreschi del 1300, si trova in Valsolda. 4 Cibele era solitamente raffigurata in un sacello, con un cesto e in mano una patera e un timpano e fiancheggiata da leoni o con un leone in grembo. Cfr. AA.VV., Dizionario d'antichità classiche, Oxford University Press, London, 1962, pp. 408-9, Vol. I. 5 Si noti come il numero due simbolicamente indica la seconda persona della Trinità, cioè Cristo, ed è continuamente ripetuto nelle simbologie architettoniche già all’esterno dell’edificio nelle bifore e in un complesso richiamo numerico dei gradini d’accesso alla basilica. 6 Il simbolo dell’acqua si trova nella tradizione ebraica e cristiana all’origine della creazione. Nel cristianesimo è purificazione e salvezza e nel battesimo, primo sacramento, indica la morte al peccato e la risurrezione alla vita. 7 Il riferimento è al cap. 22 dell’Apocalisse di Giovanni, un testo secondo la tradizione rivelato da un angelo all’apostolo sull’isola di Patmos, un’isola del mar Egeo. “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente (Apocalisse, 1, 17-18)”. 8 Apocalisse 5,1. 9 Apocalisse 5,5. 10 Apocalisse 5,6. 11 Daniele 9,24; Giovanni 3,33. 12 Il numero 4 e il tetragono ( o quadrilatero) sono simboli di terra indicando i quattro punti cardinali. 13 Il grifo, come immagine simbolica, appartiene già alla cultura orientale, col suo corpo di leone, becco, ali ed occhi penetranti dell’aquila e un famoso esempio si trova sui rilievi di Nimrud. La chimera, ricordata dallo stesso Omero, è animale fantastico che sputa fuoco, ha petto di leone, corpo di capro e coda di serpente ed ognuna di queste parti termina con una testa. Nel caso di San Pietro al Monte la coda termina con una testa di lupo. 14 I bestiari, erano una specie di prontuario, in cui si spiegava la simbologia e l’influenza proprie delle figure di animali, sia naturali che strani e fantastici. 15 Nello zodiaco babilonese il bue rappresenta il Toro, il leone – ovviamente – il segno del Leone, l’aquila rappresenta lo Scorpione e l’uomo (o l’angelo) rappresenta l’Acquario. 16 Per questo alcune interpretazione, al di là di alcune differenze descrittive, riconducono l’immagine del tetramorfo ai lamassu neo-assiri, cioè alle figure che segnalavano l'ingresso del "palazzo reale". Essi sono spiriti protettori, monumentali statue di toro col volto d'uomo, perlopiù, ma non sempre, dotate di ali, poste ad esempio all’ingresso dei palazzi reali di Ninive e di Khorsabad. 17 Le ali sono simbolo di spiritualità e trascendenza, di ciò che va oltre l’appartenenza terrena. 18 Apocalisse 4, 7-8. 19 Luca, 1,5. 20 Comunemente Vangeli e volti del tetramorfo determinano una corrispondenza nell'ordine con cui i vangeli sono disposti nei codici antichi e nelle bibbie a stampa odierne. Seguono l’ordine del testo di Ezechiele: uomo (Matteo), leone (Marco), bue (Luca), aquila (Giovanni). Non sempre tuttavia è stato così. Ad esempio, tra i codici antichi più importanti, il Codex Bezæ di Lione, che segue le indicazioni di Ireneo, non rispetta tale ordine e la posizione di Marco e di Giovanni è scambiata. 21 Ecco la traduzione inglese del testo slavo: Abraham’s Vision of the Divine Throne (Chapter XVIII.) “And while I still recited the song, the mouth of the fire which was on the surface rose up on high. And I heard a voice like the roaring of the sea; nor did it cease on account of the rich abundance of the fire. And as the fire raised itself up, ascending into the height, I saw under the fire a throne of fire, and, round about it all-seeing ones, reciting the song, and under the throne four fiery living creatures singing, and their appearance was one, each one of them with four faces. And such was the appearance of their countenances, of a lion, of a man, of an ox, of an eagle: four heads [were upon their bodies so that the four creatures had sixteen faces]; and each had six wings; from their shoulders, [and their sides] and their loins. And with the (two) wings from their shoulders they covered their faces, and with the (two) wings which (sprang) from their loins they covered their feet, while the (two) middle wings they spread out for flying straightforward”. 22 Scritto tra il 70-150 d.C.) su un proto-testo semitico perduto, attribuito ad Abramo, e appartenente al genere apocalittico, è pervenuto solo in una versione paleoslava. In una prima parte descrive la conversione di Abramo dal politeismo al monoteismo e successivamente narra la testimonianza di Abramo della consegna al demone Azazel degli inferi, e quindi della purificazione del tempio di Gerusalemme dai culti idolatrici. La sua origine è giudaica, ma con alcune interpolazioni cristiane. 23 Apocalisse 12,1 24 Apocalisse 12,3 25 Il poderoso affresco d’originale bellezza, riassume gli elementi essenziali della storia in cui il drago tenta di ghermire il bimbo dato alla luce dalla donna, mentre intervengono le schiere angeliche comandate dall’arcangelo Michele che, in splendida, leggera e superba danza sconfiggono il drago e salvano il neonato destinato, da Vincitore, a sedere sul trono di Giustizia. 26 Probabilmente anche qui le figure erano sei e tra questi risalta soprattutto il pavone. Infatti, nella simbologia cristiana il Pavone è simbolo di immortalità, mentre il Chrismon, nella tradizione della chiesa risale al periodo paleocristiano. Esso è formato dall’intreccio delle due lettere greche maiuscole “Χ” e “Ρ” intrecciate che sono le prime due lettere di Χριστός (Cristo). 27 Cavargna è oggi un piccolo comune di soli 214 abitanti situato nella valle omonima, tra Italia e Svizzera, nel medioevo inserito nella pieve di Porlezza, dove sul passo di San Lucio, a 1542 metri d’altezza, si trova un oratorio già attestato nel XIII secolo dedicato al santo locale. 28 Si consiglia vivamente di leggere la definizione simbolica di Leonardo riferita a questo animale alla voce “62. Leofante”, con richiamo diretti alla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. 29 Santo Antonio abate, è noto anche come sant'Antonio il Grande, sant'Antonio d'Egitto, sant'Antonio del Fuoco, sant'Antonio del Deserto o sant'Antonio l'Anacoreta, vissuto in Egitto tra il III e IV secolo, fu eremita ed è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. 30 Cfr. F. SPADAFORA, s.v., Giovanni evangelista, in Bibliotheca Sanctorum, VI, Roma 1965, col. 790. 31 Legata all’aneddoto del calice col serpente, un tempo si celebrava una tradizione che risale alle popolazioni franco-galliche e burgunde. Il 27 dicembre, festa di San Giovanni Evangelista, si portava in chiesa una bottiglia di vino o di sidro da far benedire. E ogni volta che in casa si apriva una bottiglia di vino o sidro, si versava un po’ del liquido benedetto. In qualche regione il vino, detto “amore di San Giovanni (“Minne” di San Giovanni in tedesco), si regalava ai giovani sposi o si faceva bere ai moribondi in forma sacramentale. Per un maggior approfondimento di questa antica tradizione cfr. “2. Il vino di San Giovanni” in Il vino nella liturgia latina del Medioevo di FERDINANDO DELL’ORO, p. 19. 32 E’ la campanella che portavano al collo, in segno di distinzione, i maiali dei Canonici Regolari di Sant’Antonio. 33 Con la costituzione dei Canonici Regolari di Sant’Antonio, i suini, allora animali di estrema importanza nell’economia contadina, furono posti sotto la protezione del santo asceta e forse da questo nacquero le leggende e l’iconografia dello stesso. Infatti, ai monaci del suddetto Ordine fu permesso di allevarli e gli animali, contraddistinti da una campanella che portavano appesa al collo, potevano circolare indisturbati per città e paesi, a spese della comunità, perché resi sacri e intoccabili. I monaci poi li macellavano in mattatoi presso chiese e ospedali da loro gestiti, per utilizzarne il lardo, rimedio in quel tempo indispensabile e prezioso contro l’herpes zoster, chiamato dalla gente comune fuoco di Sant’Antonio. 34 Le ali sono simbolo di spiritualità e trascendenza. 35 La figura del serpente è presente nella simbologia di molte culture antiche e in latino si indicava con il termine draco, come nel grande affresco della Parusia in San Pietro al Monte. In questo caso si fa riferimento all’episodio narrato dal Libro dei Numeri 21,6-9, quando Mosè, per ordine divino, costruisce un serpente di rame e lo innalza sopra un palo. Nella simbologia antica l’appellativo di serpente era dato a coloro che sapevano guardare nel mondo divino-spirituale per testimoniarlo ed erano iniziati in questo modo ai misteri. Serpenti furono i precursori dell’avvento del Cristo Gesù e Mosè indicò la sua missione innalzando dinanzi al suo popolo il serpente come simbolo dell’elevazione di coloro che potevano guardare entro i mondi spirituali. Così Cristo si esprime nel dialogo con Nicodemo: “Come Mosè innalzò il serpente, così pure è necessario che sia innalzato il Figlio dell’uomo”. 36 Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, vissuto tra il scrittore romano 155 e il 230, cartaginese di nascita, fu filosofo e apologeta cristiano. 37 Cfr. Acta apostolorum argumentum 31.2,8 (TERTULLIANO, De carne Christi: PL 2, 764 A): “… post eius in coelum ascensum in Pentecoste ad eos missus, quasi alter Chritus, non jam mortalis, sed immortalis et gloriosus”. 38 Col termine greco Parusìa (παρουσία) si indica la presenza del divino o dell’essenza ideale. Nella teologia cristiana indica il ritorno di Cristo vittorioso alla fine dei tempi. 39 La “Deesis”, come rappresentazione, è passata dal gruppo bizantino (col significato di preghiera, intercessione) al significato dell’arte d’Occidente di giudizio finale. In essa compaiono Cristo giudice, con alla destra la Vergine ed a sinistra S. Giovanni Battista. In mano Cristo porta il libro con la scritta “Ego sum lux muti- di” (Io sono la luce del mondo), con un chiaro significato escatologico. 40
Il monastero, passando dalla proprietà regale longobarda a quella di
Carlo Magno, fu parte dei possedimenti dell’impero. Federico
Barbarossa, nel diploma del 1162, scrive di San Pietro: “… il venerabile
Algiso, abate della chiesa di Civate, che è nostra chiesa regale “.
L’aquila è collocata in modo inequivocabile a dominare la scena, ma
esterna ad essa come elemento decorativo autonomo ed è immediatamente
visibile a chi accede alla basilica. La sua forma richiama le fattezze
del simbolo imperiale già risalente al modello ittita, passato all’Asia
Minore ed infine ai bizantini. L’aquila imperiale tedesca fu elevata in
questa forma come simbolo imperiale da Carlo Magno stesso, la notte
della sua incoronazione, nel natale del 799, secondo il modello romano.
Nel 1345 venne definitivamente inclusa nello stemma della casa
imperiale tedesca, per divenire il simbolo usuale del governo tedesco
sino ad oggi, o perlomeno ieri, quando ancora campeggiava sui Marchi.
Si osservi con attenzione come il simbolo dell’aquila imperiale,
derivando dalla M di Monarchia, manifesti la sua presenza e la sua
trasformazione meravigliosa anche nei versi danteschi del Paradiso
(Canto XVIII, vv. 94-113) e venga qui riprodotta nelle immagini
proposte nell’edizione Zanichelli, commentata dal Porena Manfredi,
Bologna, 1983, p. 337. Tale immagine è confrontabile con quella posta
sul ciborio di S. Pietro al monte. 41 Apocalisse 7.1: “Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta”. 42 Apocalisse 7.4: “Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele”. 43 Apocalisse 7.9: “Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. 10 E gridavano a gran voce: ‘La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello’”. |
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Settembre 2020 - Carlo Castagna |